Le attività facevano parte dell’Istituto di pratiche teatrali per la cura della persona (2017–2020), del Teatro Stabile di Torino, progetto di Gabriele Vacis e Roberto Tarasco.

L’Istituto aveva la mission di portare pratiche di consapevolezza corporea in spazi performativi non spettacolari, a persone che potessero utilizzarle nella propria vita.

Il metodo laboratoriale di Vacis nasce come tecnica di lavoro sull’attore perchè questo crei lo spazio e le relazioni sceniche. Si sviluppa dalla Schiera, sua forma base, in altre architetture (stormo, branco, ecc.).

L’immagine che mi sono fatto per comprendere l’orizzonte di questo mix teoricopratico è quella della Ragnatela.
La tessitura, cioè, di uno scheletro leggerissimo su cui potersi muovere nel vuoto (la scena).
In altri termini, la costruzione di uno spazio.
La ragnatela è inoltre il senso espanso del ragno (presenza) che gli permette di sentire le vibrazioni dell’aria.

È però anche la sua trappola.

Il principio è giusto: non bisogna occupare spazio ma crearlo.
Il punto di partenza è sempre il momento presente, il luogo e la posizione in cui sei adesso,
ogni inizio è una pausa.

La deriva pratica è secondo me nella volontà di appesantire le parole, nel voler a tutti i costi fare di una geometria leggerissima un mattone anticotestamentario, un Insegnamento.

É già nel nome “Istituto” questa vocazione al mattone, fondativa in senso architettonico, paradossale nel fatto di essere riferita a un progetto a termine, ma contro questo va l’intento del nome, anche nella sua lunghezza.

Va detto poi che qualcosa del genere ha già un nome, molto più antico: teatro.
Ma il bisogno dietro al nome è uno scopo fondativo appunto, che distingue, ritaglia spazio, in questo stabilisce delle gerarchie, il potere della parola: schiera, branco, stormo sono anche sistemi di distribuzione del potere del mondo animale.

Tra questi principi così diversi, nella forma applicata, purtroppo, questa pratica incappa spesso nel rischio di ridursi “all’essere presenti a qualcuno”, “al cospetto di”.
In questo contesto teatrale: il Ragno-Regista.
Nel contesto scolastico: il Maestro o chi per lui.

In questo lo spirito di queste pratiche è superato, novecentesco, brutalista.

Si tratta ad ogni modo di un’esperienza formativa che reputo molto importante e di cui sono grato, basata su tecniche di consapevolezza corporea tratte da varie discipline e teorie: tra cui la mindfulness, il teatro di Grotowski, l’antropologia teatrale e varie forme di ritualità (oratorio, mandala, confessione, famiglia e altre).

Oltre al lavoro sul corpo, viene fatto un discorso molto interessante sulla parola, intesa come forma narrativa e come suono — in particolare nel leggere.
Lo studio riguarda il ritmo, il tono e il volume: caratteristiche proprie di un corpo in movimento nello spazio, qual è la voce.

Attraverso l’addestramento a queste proprietà, l’attore o chi per lui, come un suonatore di violino, si allena a filare le lettere, a tessere le parole.
Da un lato deve sciogliere le dita (il corpo) e dall’altro eseguire lo spartito: dire senza che il tono raddoppi il significato, l’ andamento sostenuto da un ritmo e il giusto volume.

Nell’estetica specifica, la ricerca mira al peso della parola: la parola-pietra, biblica.
Di nuovo, secondo me, ingombrante e che rende traballante l’impalcatura, ad ogni modo

questo il mio pensiero entomologico sulla faccenda!

Nella pratica si è trattato di una serie di laboratori in contesti non prettamente teatrali, come le scuole superiori, i centri per migranti, i centri di salute mentale.
Per parte mia, ho collaborato a condurre i laboratori e ho filmato diversi momenti, raccontando le attività e gli incontri con un taglio documentaristico.

Oltre a quanto detto, è stato un periodo piuttosto avventuroso. Va dato il giusto peso al fatto che a questa impalcatura di pensiero si affianca uno spirito piratesco che ne alleggerisce per fortuna la messa in atto — e a cui andrebbe reso molto più merito.

Inoltre, personalmente, devo un grazie a Vacis e Tarasco, per il fatto che — attraverso le loro ragnatele, al fatto che un pò di spazio me l’hanno dato — ho iniziato a mettere un piede nei teatri, e ho scoperto quanto è importante per me.
Di questo gli sarò sempre grato.

Per chiudere, una frase che Vacis spesso legge e che contiene uno dei suoi insegnamenti più preziosi — la durata  — anche se l’ha scritta Calvino:

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui,

l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme.

Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e

diventarne parte fino al punto di non vederlo più.

Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui:

cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno,

e farlo durare,

e dargli spazio.